La canzone di Rodolfo: una storia di amicizia
Era ancora giovane il signor Rodolfo, aveva da poco compiuto i 65 anni, ma sembrava portare sulle spalle ricurve il peso di due vite, sebbene paradossalmente non ne aveva vissuta intensamente nemmeno una.
Cresciuto all’ombra severa di una madre soffocante, Rodolfo passò i primi 30 anni chiuso in un nido irto di spine, totalmente ignaro di quello che succedeva nel mondo; solo alla scomparsa del suo unico punto di riferimento iniziò ad affacciarsi timidamente alla vita, e incontrò lei, Giselle.
Venne letteralmente travolto dalla sua fame di vita, dai suoi occhi verdi che si mangiavano le cose, dalla sua risata che metteva scompiglio e da quelle mani affusolate, piene di anelli, che cercavano le sue.
Un amour fou, per Rodolfo, forse solo un’avventura estiva, per Giselle, che quando lui partì sul treno per Bordeaux, con quel buffo berretto calato sulla fronte, lo salutò dicendo: adieu.
Non la dimenticò mai, nemmeno quando iniziò a viaggiare per il mondo alla scoperta di quella vita che non riuscì mai, fino in fondo, a comprendere, e nemmeno quando cercò in altre donne le sue amabili carezze.
Giselle gli aveva lasciato un pozzo di ricordi in cui affogare il cuore, insieme a un disco che ascoltò fino allo sfinimento.
Quel tono scanzonato di Fernandel e le parole taglienti di Je me mens, diventarono un abito che Rodolfo indossò fino alla sua morte, perché anche lui, che in maniera scanzonata girava il mondo, alla fine non faceva che mentire a sé stesso, con l’allegria di chi nascondeva un’anima profondamente ferita.
Rientrò definitivamente in Italia, in quella casa all’ultimo piano, divenne sempre più scontroso, introverso, deluso da quel debito di felicità che la vita aveva nei suoi confronti, e iniziò a scrivere di lei, di Giselle, per tenerne vivo il ricordo ed evitare che sbiadisse in quella solitudine.
Michele arrivò alla fine di un’estate interminabile.
Studiava al Politecnico, era originario di Palermo e aveva risposto all’annuncio del pied-à-terre vicino all’Università, quello che Rodolfo aveva avuto in eredità dalla madre.
Gli era piaciuto subito, amava quel fare gentile e poco invadente, era puntuale con le mensilità e di tanto in tanto gli portava una risma di carta per la stampante o una confezione di caffè appena macinato.
Visite brevi, che diventarono appuntamenti fissi e, infine, chiacchierate tra amici: a vederli insieme, in inverno seduti davanti alla grande stufa a legna, e in estate all’ombra del glicine del terrazzo, sarebbero sembrati padre e figlio.
Ma dire chi fosse l’uno e chi l’altro, talvolta era impossibile.
Quel pomeriggio di febbraio furono i vicini del piano di sotto a dire a Michele che Rodolfo era stato portato in ospedale e che, se voleva vederlo, doveva fare presto, perché era sembrato a tutti molto grave.
Michele non fece in tempo, quando arrivò affannato con le gambe che tremavano, una giovane infermiera gli disse solo “Mi dispiace, non ha superato la crisi”.
Rodolfo se ne andò così, da solo, con quel motivo di Fernandel nella testa, gli occhi di Giselle nel cuore, il sole di quell’estate straordinaria sulla pelle.
Coutot-Roehrig individuò i suoi eredi, che nulla sapevano del lontano cugino, ma successe anche un fatto inconsueto: Michele, desideroso di acquistare l’appartamento dove aveva vissuto da giovane studente, contattò gli esperti che avevano curato la successione del signor Rodolfo, e oggi, quel pied-à-terre, è diventato la sua casa.
I tesori, qualche volta, non sono fatti di oggetti preziosi o proprietà prestigiose, ma hanno il sapore dell’amicizia e della gratitudine, e proprio per questo sono ancora più rari.