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La signora Carmen: l’eredità di Luisa

Carmen ogni tanto chiude gli occhi.

Non vuole distrazioni per tornare a quelle estati degli anni 30, trascorse alle pendici delle colline torinesi, tra il frinire delle cicale e i rintocchi puntuali delle campane della chiesa del paese.

Quando ci ripensa, si ritrova ancora seduta sul portapacchi della bicicletta della mamma, che cingeva in vita con le braccia abbronzate, divertita dai sobbalzi e dagli scatti in velocità nelle discese, ma soprattutto dagli sguardi d’intesa con Luisa, la sua cuginetta.

Anche lei sistemata sul portapacchi della bici della zia, le faceva la linguaccia a ogni sorpasso, con aria di sfida. Era così che si arrivava al santuario di Don Bosco, con il cesto del picnic e il cuore gonfio di entusiasmo: per Carmen e Luisa, inseparabili, quelle erano le gite più belle e spensierate della loro infanzia.

Poi il tempo compie accelerazioni bizzarre, proprio come quelle biciclette in discesa, e in un attimo Carmen è una donna adulta, incontra l’amore della sua vita, e si trasferisce a Lisbona: inizia una nuova puntata dell’esistenza, quella in cui è sposa e madre felice, e di lì a poco, in un’accelerazione ancor più sorprendente, nonna.

Di Luisa, che a sua volta si è fatta una famiglia ed è rimasta a vivere sulle colline torinesi, ha perso i contatti ma non l’immagine di quello sguardo birichino e delle guance rosse per il caldo.

Carmen morde la vita con lo stesso entusiasmo di quando era bambina: a dispetto degli anni che scorrono veloci, riempie le sue giornate di progetti e sogni, trascorre lunghi periodi in Belgio, dove la figlia si è trasferita una volta sposata, e quando è nel suo appartamento a Lisbona, seduta in poltrona a sfogliare gli album dei ricordi, chiude gli occhi ed è a respirare polvere e risate sulla bicicletta della mamma.

In questa piena e serena esistenza, Carmen non si aspetta di certo una visita di Coutot-Roehrig. I genealogisti la trovano, dopo averla rincorsa per mezza Europa e le comunicano una notizia inattesa: Luisa non c’è più, ha lasciato la vita terrena, e lei risulta tra i suoi legittimi eredi.

Riapre con grande affetto e nostalgia l’album dei ricordi, per recuperare ciò che manca: cosa è successo, dopo gli anni spensierati delle gite al santuario, alla sua amata cuginetta?

Carmen riempie così le pagine bianche, passeggia mano nella mano con i genealogisti di Coutot-Roehrig, immagina Luisa cresciuta, moglie e mamma, ripercorrere quelle strade polverose e assolate degli anni 30.

La sua non è tristezza, ma riconoscenza: scoprirsi eredi, spesso aiuta a chiudere un cerchio affettivo e familiare rimasto tanto tempo in sospeso.

Ora Carmen, quando chiude gli occhi, può vedere la sua Luisa farle ancora la linguaccia, come a dirle: ti ho superato ancora.

 

La canzone di Rodolfo: una storia di amicizia

Era ancora giovane il signor Rodolfo, aveva da poco compiuto i 65 anni, ma sembrava portare sulle spalle ricurve il peso di due vite, sebbene paradossalmente non ne aveva vissuta intensamente nemmeno una.

Cresciuto all’ombra severa di una madre soffocante, Rodolfo passò i primi 30 anni chiuso in un nido irto di spine, totalmente ignaro di quello che succedeva nel mondo; solo alla scomparsa del suo unico punto di riferimento iniziò ad affacciarsi timidamente alla vita, e incontrò lei, Giselle.

Venne letteralmente travolto dalla sua fame di vita, dai suoi occhi verdi che si mangiavano le cose, dalla sua risata che metteva scompiglio e da quelle mani affusolate, piene di anelli, che cercavano le sue.

Un amour fou, per Rodolfo, forse solo un’avventura estiva, per Giselle, che quando lui partì sul treno  per Bordeaux, con quel buffo berretto calato sulla fronte, lo salutò dicendo: adieu.

Non la dimenticò mai, nemmeno quando iniziò a viaggiare per il mondo alla scoperta di quella vita che non riuscì mai, fino in fondo, a comprendere, e nemmeno quando cercò in altre donne le sue amabili carezze.

Giselle gli aveva lasciato un pozzo di ricordi in cui affogare il cuore, insieme a un disco che ascoltò fino allo sfinimento.

Quel tono scanzonato di Fernandel e le parole taglienti di Je me mens, diventarono un abito che Rodolfo indossò fino alla sua morte, perché anche lui, che in maniera scanzonata girava il mondo, alla fine non faceva che mentire a sé stesso, con l’allegria di chi nascondeva un’anima profondamente ferita.

Rientrò definitivamente in Italia, in quella casa all’ultimo piano, divenne sempre più scontroso, introverso, deluso da quel debito di felicità che la vita aveva nei suoi confronti, e iniziò a scrivere di lei, di Giselle, per tenerne vivo il ricordo ed evitare che sbiadisse in quella solitudine.

Michele arrivò alla fine di un’estate interminabile.

Studiava al Politecnico, era originario di Palermo e aveva risposto all’annuncio del pied-à-terre vicino all’Università, quello che Rodolfo aveva avuto in eredità dalla madre.

Gli era piaciuto subito, amava quel fare gentile e poco invadente, era puntuale con le mensilità e di tanto in tanto gli portava una risma di carta per la stampante o una confezione di caffè appena macinato.

Visite brevi, che diventarono appuntamenti fissi e, infine, chiacchierate tra amici: a vederli insieme, in inverno seduti davanti alla grande stufa a legna, e in estate all’ombra del glicine del terrazzo, sarebbero sembrati padre e figlio.

Ma dire chi fosse l’uno e chi l’altro, talvolta era impossibile.

Quel pomeriggio di febbraio furono i vicini del piano di sotto a dire a Michele che Rodolfo era stato portato in ospedale e che, se voleva vederlo, doveva fare presto, perché era sembrato a tutti molto grave.

Michele non fece in tempo, quando arrivò affannato con le gambe che tremavano, una giovane infermiera gli disse solo “Mi dispiace, non ha superato la crisi”.

Rodolfo se ne andò così, da solo, con quel motivo di Fernandel nella testa, gli occhi di Giselle nel cuore, il sole di quell’estate straordinaria sulla pelle.

Coutot-Roehrig individuò i suoi eredi, che nulla sapevano del lontano cugino, ma successe anche un fatto inconsueto: Michele, desideroso di acquistare l’appartamento dove aveva vissuto da giovane studente, contattò gli esperti che avevano curato la successione del signor Rodolfo, e oggi, quel pied-à-terre, è diventato la sua casa.

I tesori, qualche volta, non sono fatti di oggetti preziosi o proprietà prestigiose, ma hanno il sapore dell’amicizia e della gratitudine, e proprio per questo sono ancora più rari.

La storia di Cecilia e il suo violino

I violini possono prestarsi a una folla di sfumature in apparenza inconciliabili. Essi hanno la forza, la leggerezza, la grazia, l’accento triste e gioioso, il sogno e la passione (…). Il violino è la vera voce femminile dell’orchestra, voce passionale e casta allo stesso tempo, straziante e dolce, che piange e grida e si lamenta, o canta e prega e sogna, o esplode in accenti di gioia, come nessuno altro potrebbe fare.
(Hector Berlioz)

I primi giochi di Cecilia furono dei pennelli e una tavolozza di tempere.

Fausto, il padre, cullò per molto tempo il desiderio di trasmetterle la sua arte di stimato pittore, e non demorse nemmeno quando scoprì che la giovane figlia, nelle ore dedicate al cavalletto, fuggiva di soppiatto sul balcone, per ascoltare la vicina di casa suonare il pianoforte.

Si arrese solo quando, dopo anni, la sentì suonare nella piccola orchestra scolastica e capì che Cecilia era una vera artista, come lui, ma che aveva scelto un’altra forma di espressione.

Il primo violino fu un regalo del nonno materno, proveniva dai mastri liutai di Cremona ed era di seconda mano: ma Cecilia, ogni volta che apriva la custodia e sentiva quel profumo di cera e velluto un po’ consumato, si sentiva la bambina più felice del mondo.

Sinfonie, sonate ed esercizi ripetuti all’infinito diventarono per lei un mondo irresistibile dove rifugiarsi ogni giorno: non si può certo dire che Cecilia fosse una bambina prodigio, ma sicuramente crebbe virtuosa e appassionata, fino a diventare una musicista professionista.

Dedicò la sua vita all’orchestra in cui suonava, senza mai sposarsi, e immolandosi totalmente al suo primo e unico amore: il violino.

Cecilia si spense in età avanzata, tra i suoi spartiti e i quadri di suo padre che la ritraevano, ancora bambina, alle prese con le sue prime esibizioni: lo sguardo enigmatico, il volto rilassato e quell’espressione tra il divertito e il pensieroso.

Si dice che mentre la Gioconda posava nello studio di Leonardo, per tutto il tempo vi fosse musica per archi e che il suo celebre sorriso fosse, alla fine, un riflesso del suono di quelle melodie.

Forse Fausto riuscì a cogliere l’estasi artistica della figlia, o molto più semplicemente cercò, a suo modo, di esprimerne il talento, seppure ancora acerbo.

Gli eredi di Cecilia, rintracciati da Coutot-Roehrig, ricordano di quell’uomo gli amabili tratti e il carattere gioviale, ma è della violinista che serberanno per sempre quell’immagine elegante e armoniosa.

 

La collezione di vinili: l’eredità di Sara

Alba, mezzodì, pomeriggio e tramonto.

Siamo partiti così, a misurare il tempo, osservando il sole.

Poi siamo passati ai cicli della Natura, estate, autunno, inverno e primavera.

Il tempo è un concetto astratto che da sempre affascina l’uomo: analizzato, sezionato, calcolato, misurato, ma sempre libero.

Tra le forme d’arte più popolari la musica rappresenta quella più antica e, prima ancora che l’uomo facesse la sua comparsa sulla Terra, aveva già il suo spazio nell’universo: cinguettio degli uccelli, versi di animali selvatici, fischio del vento, rumore delle onde sugli scogli, ticchettio delle gocce d’acqua sulle foglie.

Chissà se il primo uomo ha mai provato a battere le mani o i piedi sulla terra, per accompagnare quei suoni: forse il ritmo è nato così.

E da lì a una sequenza armonica di note il salto è infinitesimale, comparato alla storia del mondo, ma brevissimo se rapportato alla presenza dell’uomo su questo pianeta.

La straordinaria impresa di catturare letteralmente i suoni e le voci nel primo fonografo, deve averci dato l’impressione, in un qualche modo, di poter possedere il tempo, e forse ad affascinare così tanto Sara può essere stata proprio la sensazione di avere tra i suoi vinili un tesoro sempre a disposizione.

Primogenita di una famiglia benestante di Torino, Sara cresce accumulando tra i suoi ricordi più belli, quelli delle domeniche in cui il padre spolvera il giradischi meticolosamente, estrae dalla carta un poco sciupata il vinile della Madama Butterfly di Puccini o della Traviata di Verdi, e appoggia quella puntina miracolosa centrando perfettamente il solco, sorridendo ogni volta al suo rumore sordo e al leggero sibilo prima che parta il primo pezzo.

C’era una sorta di magia in quel rito, che Sara cercherà di ripetere per tutta la vita, e per lei non esisterà musica più bella di quella, anche se crescendo la sua collezione personale di dischi diventa interessante: inizia a scoprire i cantautori italiani, gli artisti che diventeranno i grandi classici della musica italiana, i musicisti stranieri e le band che hanno segnato un’epoca.

Non si era fermata a uno stile in particolare, ma non poteva rinunciare a quel gesto: spolverare il giradischi, sistemare il vinile, abbassare la puntina, e sedersi in poltrona sorridendo.

Sara si sposa con Giulio, inizia una nuova vita nell’attico con la grande terrazza fiorita che guarda dritta la Mole Antonelliana; ed è proprio da quella meraviglia di bosco sospeso che in certe sere d’estate e nei pomeriggi domenicali, arrivano le note di Puccini, Verdi, De André, il Quartetto Cetra, i Beatles e Luigi Tenco.

Giulio muore piuttosto giovane, in un tragico incidente, e forse Sara senza i suoi dischi non sarebbe riuscita ad affrontare quella lunga e dolorosa assenza, non avendo avuto nemmeno il tempo di progettare un figlio.

L’ha trovata la domestica, un lunedì mattina di inizio settembre, seduta sulla terrazza ancora fiorita, l’immancabile plaid sulle gambe, un sorriso di pace sul volto, e le note del coro muto della Butterfly.

Se n’era andata la signora della musica, si bisbigliò per un certo periodo nei negozi e sui balconi vicini, e per molto tempo si sentì la mancanza delle note che faceva risuonare tra le mura dei vecchi palazzi.

Gli esperti di Coutot-Roehrig, rintracciati i lontani cugini che vivevano in Svizzera, al momento dell’inventario dei beni di Sara non sono rimasti indifferenti alla collezione dei vinili, tra i quali anche quelli del padre.

ita e il cui sapore, irresistibile e terribilmente romantico, è l’espressione di un’esperienza musicale a molti sconosciuta.

“La vita sceglie la musica, noi scegliamo come ballarla”

John Galsworthy

L’inossidabile fascino del fumetto

L’immediatezza del disegno, semplice o ricco di dettagli, bianco e nero o a colori, e la magia delle storie raccontate e dei suoi personaggi, si legano indissolubilmente in una passione che spesso ha il sapore dell’infanzia, il batticuore dell’attesa, e il profumo della carta stampata.

Il fumetto accompagna i bambini e li fa rimanere tali, anche quando crescono e diventano uomini.

La realtà è che in quelle strisce che sembrano prendere vita, pur nella loro innegabile bidimensionalità, si scavalcano idiomi, si riducono distanze, si colmano solitudini e, talvolta, si acquietano paure.

Negli anni 60 si cresceva a fette di pane imburrato e avventure sui fumetti, con personaggi destinati a diventare dei beniamini, come Rin Tin Tin, Topolino, il signor Bonaventura, Sor Pampurio, Felix, Tex Willer e Tiramolla.

Guido era cresciuto così, diviso tra scuola, compiti e pomeriggi seduto sui gradini di casa, con un fumetto sulle ginocchia sbucciate, regalo del padre per essersi comportato bene: gli occhi sgranati sui tratti veloci, le dita a sfogliare con cura ogni pagina cento mille volte e la fantasia che galoppava senza confini.

Da piccolo lettore appassionato, Guido divenne, con gli anni, un vero e proprio collezionista, continuando a onorare quell’appuntamento settimanale a cui suo padre aveva dato il via, e realizzando una raccolta che, sebbene non preziosa, lo seguì nella sua casa di giovane sposo.

Brillante e impegnato imprenditore, Guido trovò sempre il tempo per sfogliare almeno uno dei suoi fumetti, tornando ogni volta a essere quel bambino con le ginocchia sbucciate, dalla risata spensierata e l’animo leggero.

Un giorno d’inverno, improvvisamente e inaspettatamente, la moglie Luigia lo lasciò.

Nemmeno il tempo di comprendere il dolore di quella perdita, e Guido la raggiunse.

Ebbero una vita intensa, senza figli, fatta di complicità e di un delicato equilibrio: quando Luigia si dedicava alle sue rigogliose piante, Guido si chiudeva nello studio e apriva un fumetto.

Gli esperti di Coutot-Roehrig si resero immediatamente conto di trovarsi in un piccolo mondo antico, che silenziosamente parlava di quei pomeriggi con la testa tra le nuvole, di occhi sgranati e di fette imburrate.

Perché spesso il valore di un’eredità sta nella personalità di chi se n’è andato: e Guido, in quella collezione apparentemente così infantile, ha lasciato di sé lo spessore di un uomo che sapeva tornare bambino, anche da anziano.

Angela

Angela e la sua collezione di vini

«Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro, un buon amico»

Molière

Immaginate di compiere un viaggio, attraverso paesaggi diversi, fatti di natura, di persone, di tradizioni e di stagioni, seguendo una geografia olfattiva.

I profumi di un vino possono fare questo e altro.

Lo sapeva bene la signora Angela, che proprio nel vino aveva riposto le attenzioni di una vita, realizzando una collezione fatta di etichette pregevoli e di annate particolari: una cantina interessante, non eccezionale, ma sicuramente espressione di una passione verace e di una cultura non indifferente.

Sposata con un signore della Torino bene, la signora Angela avrebbe potuto collezionare abiti di alta sartoria o gioielli raffinati, ma decise che il valore della convivialità fosse di gran lunga superiore a quello intrinseco di un oggetto qualsiasi.

Cominciò ad appassionarsi ai vini della zona piemontese, imparando a riconoscerne i sentori, i vitigni, le caratteristiche che mutavano in base alle annate, poi i suoi interessi si estesero, grazie alla tipica curiosità che anima le menti brillanti, al mondo, desiderosa di scoprirne le meraviglie.

La piccola vetrina dove tenere alcune etichette da degustare e la cantina con la giusta umidità dove collezionare i piccoli capolavori provenienti da più parti d’Italia, furono il passo successivo: luoghi dove entrare in punta di piedi, quasi per non disturbare il sonno di alcuni vini, dove accarezzare con rispetto le bottiglie più pregiate e infine dove attingere per condividere quel mistero così antico con gli amici più cari.

Rimasta sola dopo la dipartita di Giuseppe, suo marito, la signora Angela ha continuato a viaggiare nella sua cantina ricordando i bei tempi che furono, le serate in compagnia e le feste con le tavole imbandite, fino a quando anche per lei, è giunto il momento di andare.

Agli eredi, i genealogisti di Coutot-Roehrig, hanno consegnato la chiave della cantina con i suoi vini e i suoi ricordi: piccolo ma pulsante luogo del cuore della signora Angela.

La vita spesso apre delle parentesi per poi chiudere dei cerchi: in questo caso uno dei nipoti della signora non solo possedeva una cascina, ma di mestiere faceva il viticoltore.

Il suo sguardo, alla vista di quella cantina, deve essersi illuminato e a noi piace pensare che la signora Angela riposi serena, tranquilla per le sorti della sua collezione.

Il collezionista di libri. La storia di Carlo

La lettura è una immortalità all’indietro, diceva Umberto Eco, e chi legge si ritrova a 70 anni ad avere vissuto almeno 5000 anni: c’era quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito, quando Caino uccise Abele. Questa é la storia di Carlo: il collezionista di libri.

Leggendo, il tempo di vivere si dilata, come direbbe Daniel Pennac, e Carlo, da bambino, ricevette dai suoi genitori il regalo più prezioso, quello che gli avrebbe permesso di vivere non una ma cento, mille vite: la passione per i libri.

Intraprende così un viaggio straordinario, che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza e che lo porterà non solo ad affinare i propri gusti, ma a realizzare una collezione importante di circa 300 volumi, molti dei quali manoscritti del 600 e del 700.

Una biblioteca personale, privata, curata con il rispetto che si riserva agli oggetti d’arte e che a un certo punto si è arricchita grazie alla famiglia della consorte, animata dalla stessa passione.

Carlo ha trascorso molte ore nel suo mondo segreto, varcando probabilmente la porta in silenzio, godendosi la visione di tutti quei volumi ben riposti, decidendo poi quale consultare, non senza essersi infilato meticolosamente i guanti in filo di cotone per sfogliare pagine delicate e preziose.

Dopo aver messo il volume sul leggio, quello al centro della stanza, sotto alla lampada in ottone e vetro, avrà quindi inforcato gli occhiali dopo averne pulito per bene le lenti, e avrà iniziato uno dei suoi tanti viaggi tra le parole scritte dei suoi amati libri.

Un rituale meticoloso, come quello di colui che si prepara a un appuntamento galante, tenendo a freno le emozioni, quasi che in quell’attesa si nascondesse il vero segreto del piacere della lettura e della contemplazione.

Carlo rimane prima da solo, trovando forse conforto nella sua collezione, poi termina anche lui la sua esperienza terrena.

Grande la sorpresa di chi ha effettuato le perizie patrimoniali, scoprendo questo luogo atemporale così ricco di fascino e di cultura, ma ancora più grande lo stupore di uno degli eredi rintracciati dai professionisti di Coutot-Roehrig, che con il lontano cugino condivideva, inconsapevolmente, questo amore per i libri.

Ed è così che la collezione ha trovato mani altrettanto cortesi e disposte a preservare quel tesoro che Carlo, con grande passione, aveva creato e custodito.

Dietro le quinte della ricerca genealogica - Seconda parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Seconda parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Seconda parte

Caterina.

Partire da un nome e da un paio di date per ricostruire le origini di una persona potrebbe risultare molto complesso, ma non per un genealogista, avvezzo a percorrere strade spesso nascoste arrivando tracciare nuovi cammini, saltellando tra le regioni ma, soprattutto, giocando con la linea del tempo.

 La storia di Caterina, vissuta a Torino, si era fermata per un attimo a Pietra Ligure, paese di origine della madre, che però, a sua volta, aveva una storia interessante alle spalle.

 Ricostruendo minuziosamente la linea materna, si scopre così che la nonna materna di Caterina era una delle poche sopravvissute della sua famiglia, famiglia il cui padre era giunto sulle coste del Tirreno partendo dalla campagna vicentina. A questo punto sorge spontanea la domanda: perché, in un’epoca in cui le famiglie erano piuttosto numerose, qui si parla di “sopravvissuta”? E poi, perché il Veneto?

 Un bravo genealogista, oltre a ricostruire i legami di parentela, non deve perdere di vista il contesto storico della ricerca sulla quale sta lavorando, deve saper collocare i rami genealogici nel terreno dei grandi eventi, quelli in grado di modificare un’intera generazione, per intenderci.

 E con Caterina, o meglio con la famiglia della nonna materna, ci si colloca già nel pieno dell’800, un secolo che, tra le guerre e la nascente industrializzazione si concluse con la Grande Guerra combinata alla pandemia di spagnola, la Grande Influenza che tra il 1918 e il 1920 uccise tra i 50 e 100 milioni di persone in pochi mesi.

 Questo spiega, probabilmente, la migrazione di quell’avo dalla campagna veneta alle coste liguri, e ai loro porti, alla ricerca di una condizione di vita migliore. Da un lato il lavoro, dall’altro la guerra. Se la Guerra si faceva al fronte, la spagnola non ha certo fatto distinzione tra luoghi, generazioni o sesso … e tra le vittime si contano anche alcuni membri della famiglia della nonna materna di Caterina. Per questa ragione, qualche paragrafo più in alto, abbiamo parlato di “sopravvivere”.  Di un’intera famiglia che vedeva 12 nascite, solo 2 sono arrivate all’età adulta: una di queste era proprio la nonna di Caterina, l’altra era la nonna dei suoi legittimi eredi.

 Questi macro-eventi della storia hanno avuto forti conseguenze nelle famiglie di tutto il continente (ma non solo) e sono oggi ancora riconoscibili negli alberi genealogici: con gli uomini che perivano sul fronte e le donne che non sopravvivevano alla pandemia, anche alcuni bambini non diventavano mai grandi.

 Difficilmente, ma non di rado, è necessario risalire al sesto grado di parentela per trovare degli eredi viventi come nel caso di Caterina, ristabilendo legami andati perduti, sepolti e dimenticati, soffiando via la polvere del tempo, silenziando gli echi delle guerre, ma, soprattutto, riportando alla luce uno spaccato di un’epoca per tanti letteralmente sconosciuta.

 Questo è il lavoro del genealogista, abile funambolo sul vuoto spaventoso del tempo e guardiano discreto dei segreti di intere generazioni.

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Prima parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Prima parte

Nel 1084, sul massiccio francese delle Prealpi della Chartreuse, fu costruito il primo monastero certosino, la Grande Chartreuse, per volontà di san Brunone, un monaco cristiano tedesco.

La cura, il silenzio, la solitudine, e nel contempo la grandezza e la bellezza dei monasteri, diventarono i tratti distintivi di un ordine, quello certosino, che ha lasciato eredità straordinarie, a partire dalla celebre razza di gatto, all’elisir digestivo, fino alle miniature conosciute in tutto il mondo per la loro precisione, e da cui deriva l’origine dell’aggettivo certosino, quale sinonimo di meticoloso, paziente, minuzioso.

E come definire, se non certosino, l’ineccepibile lavoro di ricostruzione del genealogista, che con esattezza, cura puntuale, profonda conoscenza e spiccato intuito, ricostruisce le miniature generazionali di intere famiglie, alla ricerca degli ultimi eredi rimasti in vita? Non può non sfuggire un evidente parallelismo tra la grandiosità dell’operato dei monaci certosini e quella dei nostri esperti genealogisti, che non di rado scavalcano confini, infrangono barriere temporali, attraversano eventi epocali, e alla fine mettono l’ultima pennellata alla miniatura che pazientemente hanno realizzato.

Esemplare, in questo senso, è la storia di Caterina, deceduta senza lasciare eredi, figlia di sola mamma, come si usava definire allora i figli naturali non riconosciuti dal papà.

Chi si è occupato pazientemente di ricostruire l’albero genealogico di Caterina è dovuto partire unicamente dal nome e dal cognome della madre, e da due date, la nascita e la morte, inserendo questi pochi dettagli in un contesto storico culturale peculiare.

Un percorso a ritroso, alla ricerca di un indizio che portasse a un altro indizio, partendo da Torino, dove Caterina ha vissuto, per passare da Pietra Ligure, terra di nascita della madre, brancolando ad un certo punto  nel buio per la  mancanza di registri comunali, che esistono dal 1860 e non prima, e andando a consultare i registri parrocchiali, che grazie al Concilio di Trento avevano l’obbligo di annotare tutti le nascite e i decessi dei propri fedeli.

E così che partendo da Caterina, si procede a ricostruire la storia della madre, Maria Luisa, che dopo la nascita della bimba, resta a vivere nel suo paese, Pietra Ligure, e si sposa con un uomo che seppure per un breve periodo, rappresenta per Caterina l’unica figura paterna.

La nostra Caterina rimane presto da sola: mamma e patrigno decedono purtroppo prematuramente.

Bisogna andare più indietro, dove i contatti si diradano, scoprire la storia dei nonni materni, cercare il nodo preciso dove qualcosa si è spezzato e perché, seguire le ramificazioni di famiglie povere, semplici, che spesso lasciavano i paesi di origine in cerca di fortuna, dove i figli erano numerosi quanto la mortalità che li falcidiava e infine dove solo una pazienza certosina può oggi districarsi per scoprire la verità.

Cosa scopriranno i genealogisti sulle lontane origini di Caterina?

La collezione del tempo

La collezione del tempo: la collezione di Osvaldo

Gandhi amava ripetere che noi occidentali abbiamo l’ora, ma non abbiamo mai il tempo.

Così astratto e così prezioso quando non sembra mai abbastanza, così invadente e soffocante quando invece si dilata e non passa mai: fugge inesorabile, si adagia implacabile, e l’uomo vi si ribella quasi sempre in maniera fallace.

Solo in un’occasione vince: quando lo misura con pazienza, lasciando che scorra senza porvi ostacolo, sempre con l’illusione di averlo intrappolato (per sempre) in scatole preziose.

Il primo orologio da polso fu inventato alla fine del XIX secolo da Patek Philippe, inizialmente come accessorio da signora, e fu Alberto Santos-Dumont a chiedere all’amico Louis Cartier un’alternativa più pratica all’orologio da tasca per quando pilotava il proprio aereo. Quando Cartier gli propose il primo orologio da polso con cinturino in cuoio, nacque il mito.

Osvaldo amava osservare il ticchettio delle lancette sui quadranti importanti, soppesarne gli ingranaggi, accarezzare con rispetto le casse perfette, sfoggiare quelle piccole meraviglie di tanto in tanto, ma sempre con una punta di riservatezza. La passione di Osvaldo era così profonda da fargli conservare, per ogni singolo pezzo, scatola originale e certificato di garanzia, rendendo quella collezione di per sé già così importante, un tesoro ricercato e di grande valore.

Quel signore così elegante quanto riservato, possedeva il gusto di chi sa apprezzare il bello e ne coltiva le sue molteplici forme: i suoi orologi erano il suo vezzo, ma soprattutto erano il suo personalissimo modo di custodire il tempo.

Un tempo che è rimasto ai posteri, e in particolare a coloro che hanno partecipato all’asta straordinaria voluta dagli eredi di Osvaldo.

Nomi altisonanti, come Baume & Mercier, Vacheron Constantin, Jaeger LeCoultre, Rolex, sono stati aggiudicati a nuovi contemplatori del bello, traghettando idealmente quel tempo straordinario che, sebbene fuggevole per definizione, rallenta magicamente tra lancette, quadranti, rubini, meccanismi, molle e tourbillon.