Dietro le quinte della ricerca genealogica - Seconda parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Seconda parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Seconda parte

Caterina.

Partire da un nome e da un paio di date per ricostruire le origini di una persona potrebbe risultare molto complesso, ma non per un genealogista, avvezzo a percorrere strade spesso nascoste arrivando tracciare nuovi cammini, saltellando tra le regioni ma, soprattutto, giocando con la linea del tempo.

 La storia di Caterina, vissuta a Torino, si era fermata per un attimo a Pietra Ligure, paese di origine della madre, che però, a sua volta, aveva una storia interessante alle spalle.

 Ricostruendo minuziosamente la linea materna, si scopre così che la nonna materna di Caterina era una delle poche sopravvissute della sua famiglia, famiglia il cui padre era giunto sulle coste del Tirreno partendo dalla campagna vicentina. A questo punto sorge spontanea la domanda: perché, in un’epoca in cui le famiglie erano piuttosto numerose, qui si parla di “sopravvissuta”? E poi, perché il Veneto?

 Un bravo genealogista, oltre a ricostruire i legami di parentela, non deve perdere di vista il contesto storico della ricerca sulla quale sta lavorando, deve saper collocare i rami genealogici nel terreno dei grandi eventi, quelli in grado di modificare un’intera generazione, per intenderci.

 E con Caterina, o meglio con la famiglia della nonna materna, ci si colloca già nel pieno dell’800, un secolo che, tra le guerre e la nascente industrializzazione si concluse con la Grande Guerra combinata alla pandemia di spagnola, la Grande Influenza che tra il 1918 e il 1920 uccise tra i 50 e 100 milioni di persone in pochi mesi.

 Questo spiega, probabilmente, la migrazione di quell’avo dalla campagna veneta alle coste liguri, e ai loro porti, alla ricerca di una condizione di vita migliore. Da un lato il lavoro, dall’altro la guerra. Se la Guerra si faceva al fronte, la spagnola non ha certo fatto distinzione tra luoghi, generazioni o sesso … e tra le vittime si contano anche alcuni membri della famiglia della nonna materna di Caterina. Per questa ragione, qualche paragrafo più in alto, abbiamo parlato di “sopravvivere”.  Di un’intera famiglia che vedeva 12 nascite, solo 2 sono arrivate all’età adulta: una di queste era proprio la nonna di Caterina, l’altra era la nonna dei suoi legittimi eredi.

 Questi macro-eventi della storia hanno avuto forti conseguenze nelle famiglie di tutto il continente (ma non solo) e sono oggi ancora riconoscibili negli alberi genealogici: con gli uomini che perivano sul fronte e le donne che non sopravvivevano alla pandemia, anche alcuni bambini non diventavano mai grandi.

 Difficilmente, ma non di rado, è necessario risalire al sesto grado di parentela per trovare degli eredi viventi come nel caso di Caterina, ristabilendo legami andati perduti, sepolti e dimenticati, soffiando via la polvere del tempo, silenziando gli echi delle guerre, ma, soprattutto, riportando alla luce uno spaccato di un’epoca per tanti letteralmente sconosciuta.

 Questo è il lavoro del genealogista, abile funambolo sul vuoto spaventoso del tempo e guardiano discreto dei segreti di intere generazioni.

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Prima parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Prima parte

Nel 1084, sul massiccio francese delle Prealpi della Chartreuse, fu costruito il primo monastero certosino, la Grande Chartreuse, per volontà di san Brunone, un monaco cristiano tedesco.

La cura, il silenzio, la solitudine, e nel contempo la grandezza e la bellezza dei monasteri, diventarono i tratti distintivi di un ordine, quello certosino, che ha lasciato eredità straordinarie, a partire dalla celebre razza di gatto, all’elisir digestivo, fino alle miniature conosciute in tutto il mondo per la loro precisione, e da cui deriva l’origine dell’aggettivo certosino, quale sinonimo di meticoloso, paziente, minuzioso.

E come definire, se non certosino, l’ineccepibile lavoro di ricostruzione del genealogista, che con esattezza, cura puntuale, profonda conoscenza e spiccato intuito, ricostruisce le miniature generazionali di intere famiglie, alla ricerca degli ultimi eredi rimasti in vita? Non può non sfuggire un evidente parallelismo tra la grandiosità dell’operato dei monaci certosini e quella dei nostri esperti genealogisti, che non di rado scavalcano confini, infrangono barriere temporali, attraversano eventi epocali, e alla fine mettono l’ultima pennellata alla miniatura che pazientemente hanno realizzato.

Esemplare, in questo senso, è la storia di Caterina, deceduta senza lasciare eredi, figlia di sola mamma, come si usava definire allora i figli naturali non riconosciuti dal papà.

Chi si è occupato pazientemente di ricostruire l’albero genealogico di Caterina è dovuto partire unicamente dal nome e dal cognome della madre, e da due date, la nascita e la morte, inserendo questi pochi dettagli in un contesto storico culturale peculiare.

Un percorso a ritroso, alla ricerca di un indizio che portasse a un altro indizio, partendo da Torino, dove Caterina ha vissuto, per passare da Pietra Ligure, terra di nascita della madre, brancolando ad un certo punto  nel buio per la  mancanza di registri comunali, che esistono dal 1860 e non prima, e andando a consultare i registri parrocchiali, che grazie al Concilio di Trento avevano l’obbligo di annotare tutti le nascite e i decessi dei propri fedeli.

E così che partendo da Caterina, si procede a ricostruire la storia della madre, Maria Luisa, che dopo la nascita della bimba, resta a vivere nel suo paese, Pietra Ligure, e si sposa con un uomo che seppure per un breve periodo, rappresenta per Caterina l’unica figura paterna.

La nostra Caterina rimane presto da sola: mamma e patrigno decedono purtroppo prematuramente.

Bisogna andare più indietro, dove i contatti si diradano, scoprire la storia dei nonni materni, cercare il nodo preciso dove qualcosa si è spezzato e perché, seguire le ramificazioni di famiglie povere, semplici, che spesso lasciavano i paesi di origine in cerca di fortuna, dove i figli erano numerosi quanto la mortalità che li falcidiava e infine dove solo una pazienza certosina può oggi districarsi per scoprire la verità.

Cosa scopriranno i genealogisti sulle lontane origini di Caterina?

La collezione del tempo

La collezione del tempo: la collezione di Osvaldo

Gandhi amava ripetere che noi occidentali abbiamo l’ora, ma non abbiamo mai il tempo.

Così astratto e così prezioso quando non sembra mai abbastanza, così invadente e soffocante quando invece si dilata e non passa mai: fugge inesorabile, si adagia implacabile, e l’uomo vi si ribella quasi sempre in maniera fallace.

Solo in un’occasione vince: quando lo misura con pazienza, lasciando che scorra senza porvi ostacolo, sempre con l’illusione di averlo intrappolato (per sempre) in scatole preziose.

Il primo orologio da polso fu inventato alla fine del XIX secolo da Patek Philippe, inizialmente come accessorio da signora, e fu Alberto Santos-Dumont a chiedere all’amico Louis Cartier un’alternativa più pratica all’orologio da tasca per quando pilotava il proprio aereo. Quando Cartier gli propose il primo orologio da polso con cinturino in cuoio, nacque il mito.

Osvaldo amava osservare il ticchettio delle lancette sui quadranti importanti, soppesarne gli ingranaggi, accarezzare con rispetto le casse perfette, sfoggiare quelle piccole meraviglie di tanto in tanto, ma sempre con una punta di riservatezza. La passione di Osvaldo era così profonda da fargli conservare, per ogni singolo pezzo, scatola originale e certificato di garanzia, rendendo quella collezione di per sé già così importante, un tesoro ricercato e di grande valore.

Quel signore così elegante quanto riservato, possedeva il gusto di chi sa apprezzare il bello e ne coltiva le sue molteplici forme: i suoi orologi erano il suo vezzo, ma soprattutto erano il suo personalissimo modo di custodire il tempo.

Un tempo che è rimasto ai posteri, e in particolare a coloro che hanno partecipato all’asta straordinaria voluta dagli eredi di Osvaldo.

Nomi altisonanti, come Baume & Mercier, Vacheron Constantin, Jaeger LeCoultre, Rolex, sono stati aggiudicati a nuovi contemplatori del bello, traghettando idealmente quel tempo straordinario che, sebbene fuggevole per definizione, rallenta magicamente tra lancette, quadranti, rubini, meccanismi, molle e tourbillon.

L’elegante signora in Chanel

La moda passa, lo stile resta

Coco Chanel

 

Lo sapeva bene Gabrielle Bonheur Chanel, nata in un ospizio per poveri e cresciuta in un orfanotrofio, ma non per questo dotata di uno charme inconfondibile.

L’eleganza è prima di tutto un atteggiamento, un tratto distintivo difficile da acquisire semplicemente con un bell’abito o con un accessorio pregiato.

Incedere con grazia, parlare con gentilezza, lasciare una traccia del proprio passaggio, sono doti che vanno oltre la moda e che, distanti dall’ostentazione, rimangono immutati nel tempo.

Ottavia non aveva origini così umili come Madame Chanel, ma divenne una signora della Torino bene solo in seguito al matrimonio con Giuseppe, brillante imprenditore che la portò a vivere in un bellissimo appartamento a due passi da Via Roma, facendole vivere un lusso che forse aveva solo sognato.

Eppure Ottavia aveva il dono.

Dotata di quello che si definisce physique du rôle, che le permetteva di indossare gli abiti più ricercati con squisita naturalezza e savoir faire, possedeva un innegabile buon gusto che la portò nel corso degli anni a collezionare le migliori firme dell’alta sartoria e accessori raffinati e senza tempo.

Ottavia divenne presto per tutti l’elegante signora in Chanel, benché il suo stile spaziasse anche da Valentino a Gucci, confermando, per dirla alla Yves Saint Laurent, che ciò che è importante in un vestito, è la donna che lo indossa.

L’inclemenza del tempo che scorre, seppure incapace di sottrarre classe a chi ne ha da vendere, colpisce anche chi appare così distante: Giuseppe a un certo punto viene a mancare e Ottavia si trova sola con Adele, la sorella minore che aveva deciso di accogliere a casa perché malata e bisognosa di cure.

Ma a dispetto della malattia, sarà proprio Ottavia a lasciare per prima la vita terrena, seguita solo successivamente da Adele.

Di quell’eleganza e di quel gusto raffinato, rimangono così due cabine armadio ordinate quanto preziose, dove le borse di Chanel fanno eco agli abiti di Valentino, i cappotti di cachemire sorridono alle scarpe di Gucci e i foulard morbidi e impalpabili, portano ancora le essenze discrete dei profumi che la signora Ottavia amava tanto.

Capita, e non di rado, che chi si occupa di lasciti e ricerche genealogiche ritrovi nei tratti degli eredi la sorpresa di una somiglianza fisica, la ridondanza di un atteggiamento o di uno sguardo, e che osservi quindi con rispettoso silenzio quel bizzarro rincorrersi nel tempo di una familiarità molto spiccata.

Nel caso di questa storia, è nelle figlie delle cugine di quinto grado che Coutot-Roehrig ha ritrovato Ottavia: nei gusti nel vestire, nella fisicità sinuosa, negli atteggiamenti.

In una parola: nell’eleganza.

Ed è così che tutti gli abiti e gli accessori, come richiamati di nuovo in vita, sono tornati a far sfoggio di stile e di classe, come il refrain di una antica melodia mai dimenticata.

 

Eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare

Giorgio Armani

Un importante traguardo si raggiunge con tenacia

Pour ce qui est de l’avenir, il ne s’agit pas de le prévoir, mais de le rendre possible

Riguardo il futuro, non si tratta di prevederlo, ma di renderlo possibile

 Antoine de Saint-Exupéry

 

Questo anno che si chiude per noi è speciale.

Siamo arrivati a Genova 20 anni fa, artefici di un mestiere che in Italia non esisteva, fautori di un legame con la Francia e successivamente con il mondo intero che ha annullato o quasi le distanze geografiche, e orgogliosamente attori in prima linea con una città considerata oggi il simbolo di un nuovo risorgimento italiano.

Dal 1894 a oggi, la storia di Coutot-Roehrig è quella di un albero che ha messo radici profonde, che ha reso possibile la crescita di una foresta e che ha portato l’eccellenza nel campo della ricerca di eredi.

Ci hanno definito gli Indiana Jones degli alberi genealogici, gli esperti investigatori di archivi, i perfetti James Bond dei lasciti: a noi piace definirci semplicemente pionieri, coloro che per primi hanno tracciato una strada dove prima non c’era nulla, ricucito strappi generazionali apparentemente irrisolvibili, e ricongiunto famiglie divise dagli scherzi del destino.

Storie di vita straordinarie, patrimoni importanti, e vicende intricate ci hanno fatto fare il giro del mondo: ogni volta abbiamo portato la nostra professionalità, la nostra passione e la forza di una grande équipe.

Ed è per tutto questo che abbiamo celebrato i nostri primi vent’anni dando un valore al nostro percorso che fosse di buon auspicio, con la Cena di Gala al Chiostro dei Canonici della Cattedrale di San Lorenzo, a Genova.

Insieme abbiamo fatto tanta strada, ma soprattutto abbiamo reso possibile il futuro, che affrontiamo con rinnovato entusiasmo.

Buone feste!

Nadia Spatafora

 

La memoria dei giganti della Terra

Indimenticabili abitanti delle foreste della Terra di Mezzo, nel Signore degli Anelli di Tolkien, accoglienti rifugi per le meditazioni di Siddharta, come raccontato da Hesse, fratelli saggi per i nativi americani e anello di congiunzione all’universo per i misteriosi sciamani, ma anche tenaci difensori della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts nei personaggi spaventosi dei platani picchiatori della Rowling, nella celebre saga di Harry Potter.

Tra mitologia e narrazione, fantasia e realtà, un tempo la Terra ferma era completamente ricoperta di alberi, che ancora oggi, con le loro radici, rami, foglie e frutti, accompagnano l’uomo nel suo breve passaggio in questa fugace dimensione terrena.

Non è inusuale quindi trovarli nei lasciti più importanti, quelli che includono case padronali e tenute, ben alloggiati in parchi naturalistici secolari, testimoni della vita di intere generazioni: venuti da chissà dove, piantati ancora gracili, cresciuti insieme ai primi bambini di famiglia, spettatori di feste estive e nevicate invernali, di temporali furiosi e di giornate assolate, di matrimoni e di funerali, e infine di cancelli che si chiudono in attesa di tempi migliori.

Bisognerebbe prendersi il tempo per conoscerli uno a uno, per apprezzarne le caratteristiche e comprenderne i silenzi, perché tutti, ma proprio tutti, hanno una storia da raccontare.

La famiglia della signora Beatrice, ai primi del Novecento, invogliata dal creare un contesto che potesse esprimere al meglio uno status sociale elegante, oltre alla bella villa curata in ogni dettaglio, ha incaricato la realizzazione di un giardino importante, dove piante e fiori seguissero una puntuale architettura paesaggista degna di un dipinto dell’Ottocento.

E tra quelle magnolie, la sequoia, molte camelie, le immancabili rose, alcuni salici e cipressi, ecco lui, che tutti hanno iniziato a chiamare pino gigante quando ha raggiunto i suoi 40 metri di altezza, ma che in realtà pino non è.

Originario dell’Himalaya, dove cresce a partire dai 1500 metri di altitudine popolando intere foreste, il cedro Deodara ha iniziato ad abbellire ville e giardini in Italia oltre un secolo fa; cugino di altri giganti come il cedro del Libano, il cedro dell’Atlante e il cedro di Cipro, la sua imponente bellezza ha stregato l’uomo fin dalle origini, tanto che, se nel nord Italia veniva scelto perché in grado di raggiungere dimensioni stupefacenti, in India da sempre svolge un ruolo religioso spirituale fondamentale.

E tanto si è radicato negli anni nella mente collettiva, da essere diventato il simbolo perfetto del Natale, con la sua tipica forma piramidale, ideale per essere addobbato a gran festa con balocchi, nastri, doni e luci colorate.

Il Deodara però nasconde un segreto: le sue radici poco profonde, quasi superficiali, lo rendono molto fragile ed esposto alle bufere di vento, durante le quali rischia ogni volta di perdere ancoraggio e di sbilanciarsi, precipitando a terra.

Questo non accade se condivide il suolo con altri esemplari come lui, ai quali si aggrappa per resistere a ogni intemperia: questi giganti si sostengono a vicenda, ondeggiando nel vento flettendosi, sopportando il peso della neve senza rompersi.

Un po’ come dovrebbe fare l’essere umano.

Il Deodara della signora Beatrice, quasi centenario, ha resistito straordinariamente da solo, sfidando gli anni e il vento, meritandosi quel rispetto ossequioso degli eredi, che hanno deciso di preservare l’intero patrimonio naturale della villa.

Se non avete ancora addobbato i vostri alberi, veri o artificiali che siano, mettete sotto i loro rami un proposito per l’anno nuovo: rimanete uniti, solo così si affrontano le tempeste.

La sacralità dl bosco

La sacralità del bosco. Un lascito inaspettato

La foresta più bella, se pur minore, il cosiddetto Bosco Vecchio, era stata completamente rispettata.

Dino Buzzati (Il segreto del Bosco Vecchio)

Protagonista di favole per bambini e adulti, il bosco è un luogo senza tempo, dove folletti danzanti animano la natura, il vento compone sortilegi musicali, i fanciulli affrontano prove terrificanti per diventare uomini, e gli uomini, non senza fatica, recuperano l’elemento magico, tornando per un attimo fanciulli: è così che si compie la ciclicità della vita, ed è qui che l’essere umano, altrettanto ciclicamente, fa ritorno, ogni volta con genuino stupore.

Trovare dei terreni boschivi al centro di un lascito, non solo non cessa di stupire, ma suscita un profondo rispetto verso un mondo antico ma misteriosamente familiare, che va a toccare le corde di una sorta di memoria collettiva a cui la maggior parte delle persone appartiene.

Ereditati dalla famiglia materna, i boschi di Mario sono l’espressione di un universo contadino semplice quanto prezioso, e diventano i testimoni del passaggio di stagioni, di generazioni, di intere epoche, fino ad arrivare ai giorni nostri, in uno straordinario viaggio nel tempo dove, dopo l’oblio dei secoli, tornano a conquistare l’uomo con richiami ancestrali.

Vissuto in affitto per tutta la vita a Torino, senza mai sposarsi e senza una discendenza diretta, Mario, alla sua morte, risulta proprietario di decine e decine di appezzamenti nelle Langhe, dove i vigneti si snodano su colline che degradano dolcemente a perdita d’occhio, e le macchie boschive di noccioli e castagni celano i tartufi più rinomati d’Italia.

Luoghi metafisici ma nel contempo molto fisici, dove si respira un’atmosfera sacra, ma anche l’odore intenso della terra, del fogliame e delle cortecce.

Luoghi che ritrovano un affetto quasi doveroso, per un certo tempo smarrito, ma oggi più che mai riscoperto.

E la foresta più bella, anche la più piccola o la più frammentata, come nel caso di Mario, torna a essere di nuovo rispettata.

Un'eredità verde. L'eredità di Giovanna.

Un’eredità verde

Un’eredità particolare: la storia di un’eredità verde. L’eredità di Giovanna.

Zucche che si trasformano in carrozze, mele avvelenate, foreste oscure con alberi magici, pozioni a base di erbe segrete, piante di fagiolo che, crescendo a dismisura, arrivano fino al cielo: il mondo delle fiabe è ricco di Natura, che spesso finisce per diventare protagonista delle avventure più fantasiose, insieme agli altri personaggi.

Dall’origine dei tempi, le piante e gli alberi hanno sempre accompagnato l’uomo, sopravvivendo in molte occasioni al passare dei secoli e diventando testimoni silenziosi, loro malgrado, di intere epoche. La signora Giovanna ha di certo amorevolmente accudito le due piante grasse che teneva sul balcone, arrivate chissà come in famiglia e cresciute, discrete e pazienti, all’ombra di tante vicissitudini che una normale esistenza comporta. Un bel matrimonio, un tenore di vita soddisfacente, alcune case oltre all’appartamento principale, e una tranquillità economica che completano un quadro più che sereno. Giovanna arriva sola al termine della sua esperienza terrena, suo marito Luigi l’ha preceduta di qualche anno, e così in quell’appartamento, e su tutti gli effetti personali, cala per un certo periodo l’oscurità.

Vengono rintracciati gli eredi, lontani cugini, e iniziano le operazioni di sopralluogo: si riaccendono le luci in casa, si valutano mobilio e suppellettili, e si fa una scoperta: sul balcone, ormai allo stremo delle forze, ci sono loro, le due piante grasse, vive ma provate, orfane di cure. Vengono così tratte in salvo, dedicando loro quel muto rispetto che si riserva alle forme di vita in difficoltà, un rispetto avulso da interessi di qualsiasi tipo, e accompagnato da un sentimento che rimanda alle origini, quando ancora l’uomo viveva in simbiosi con la Natura.

Difficilmente ci si imbatte in eredità “vive”: si toccano storie straordinarie, speciali, talvolta drammatiche, e si ricuciono famiglie che si erano perse, ma in questa particolare vicenda, Coutot-Roehrig ha dovuto fare i conti con mezzo secolo circa di linfa e radici.

Le due piante, rinvigorite, sono state così affidate a nuove famiglie, pronte per vegliare su nuove storie e nuove vite, sempre in modo discreto e silenzioso, come nelle migliori favole.

Il segreto di Luisa: la storia della sua eredità

Il primo puzzle è stato realizzato nel 1767 grazie a John Spilsbury, un cartografo e precettore inglese che, per stimolare i propri allievi, decise di fissare un planisfero a un piano di legno, per poi separare con un seghetto, seguendone tutti i confini, le singole nazioni.

Ai ragazzi venne dato il compito di ricomporre la mappa del mondo, unendo i vari pezzi. La trovata ebbe così tanto successo, che Spilsbury realizzò nuovi rompicapi geografici, spaziando dall’Europa all’Asia, e il resto è storia. Coutot-Roehrig, nel risolvere l’intricato mistero della signora Luisa, non dovette andare così lontano, ma sebbene rimase nel territorio piemontese, affrontò quello che si potrebbe definire un puzzle spazio-temporale di tutto rispetto.

Siamo a Torino, a cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70, e Luisa è una signora la cui vita è pacata, tranquilla, ma soprattutto solitaria, tanto che alla sua dipartita il suo appartamento e il suo conto corrente rimangono per un certo periodo sospesi, in attesa di un legittimo beneficiario. Individuati i lontani cugini, totalmente all’oscuro dell’esistenza della signora Luisa, iniziano le pratiche del caso per poter perfezionare il lascito, ma ecco che dal Comune di Fenestrelle, piccolo e suggestivo abitato della Val di Susa, arriva una telefonata che mescola le carte in tavola, trasformandole nei tasselli di un intricato puzzle. Quella signora così cortese quanto discreta, soleva trascorrere buona parte delle sue vacanze in un minuscolo alloggio di uno stabile di Fenestrelle; due stanze più il bagno, per la precisione, in quella che un tempo probabilmente fu una portineria.

Sul perché non risultasse quel minuscolo alloggio nell’elenco dei possedimenti della donna, nell’immediato non viene trovata una plausibile spiegazione. Dopo una meticolosa indagine e qualche preziosa intuizione, emerge finalmente la soluzione: Luisa comprò quella minuscola dimora, esattamente a misura della propria solitaria esistenza, nei primi anni ‘70, esaudendo il desiderio di avere un appoggio in un luogo di villeggiatura.

Fenestrelle, con il suo maestoso forte arrampicato saldamente sul crinale della montagna per oltre 3km, i suoi scorci mozzafiato sulla Valle di Susa e sul pinerolese, e la storia che trasuda da ogni pietra, deve essere sembrato il posto ideale dove ritemprarsi in serenità, lontano dalla caotica Torino. Ma a quella compravendita del tutto regolare, non seguì l’iscrizione al catasto, così che di quelle due stanze intestate alla signora Luisa non vi era di fatto alcuna traccia.

Svelato l’arcano, risolto il rompicapo: una volta regolarizzata la situazione, Coutot-Roehrig ha potuto consegnare ai legittimi eredi anche quella piccola proprietà.

E tanto deve essere stato il fascino di quelle due stanze che, a dispetto della distanza geografica dei lontani cugini, alcuni di loro hanno avuto piacere di visitare più volte il piccolo segreto della Signora Luisa, mantenendolo punto di riferimento all’estremo confine nord dello stivale e luogo di contatto tra la terra e il cielo.

Un’amabile presenza: la memoria di Matilde

C’è un fascino mistico, quasi proibito, nell’assenza che si crea quando una persona muore.

Si cercano i segnali della sua esistenza tra le cose che ha lasciato, oggetti terreni, inanimati, ma ancora intrisi di profumi e impronte.

E si finisce sempre con il percepire qualcosa che con gli oggetti spesso ha poco a che fare, una sensazione alla quale è difficile dare un nome, ma che ci attraversa in pieno come una folata di vento primaverile, facendoci rabbrividire e provando una di quelle emozioni capaci di scavare dentro.

Qualcuno la chiama semplicemente energia.

Antoine Laurent Lavoisier, nella sua celebre frase nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, non aveva forse riassunto così il ciclo della vita?

Matilde è una amabile ragazza proveniente da una famiglia del ceto medio della Torino degli anni ‘40, che sposa in giovane età, come da consuetudine per l’epoca, Aldo, un bravo quanto instancabile tecnico esperto in meccanica.

La coppia di sposini conduce una vita tranquilla, modesta ma dignitosa, fino a quando intorno agli anni ‘60 Aldo diventa un affermatissimo produttore di materiale meccanico, con tanto di brevetti approvati: ad Aldo impegno e inventiva non mancano di certo, cosa che gli permette di crearsi una posizione di successo.

Nonostante il raggiungimento di uno status sociale più elevato, Matilde conserva uno spirito amabile e un buongusto spiccato per le cose semplici, ma di classe.

La coppia, senza figli, rimane a Torino per tutta la vita, ma come premio per un’esistenza fatta di sacrifici e di intenso lavoro, decide di comprare una piccola casa a Cantoira, nelle Valli di Lanzo, all’epoca località amena e molto amata dai piemontesi.

Lo stesso buongusto con cui Matilde arreda l’appartamento in città, viene replicato in quella casetta immersa nel bosco, tra le vallate che portano in Francia, quasi a voler confermare una felicità che l’ha accompagnata per tutta la vita.

Matilde ad un certo punto rimane vedova, Aldo se ne va, e lei, prosegue la sua esistenza con serenità, dedicandosi in special modo ai gatti, che disegna e fotografa con passione.

Termina anche l’esperienza terrena di Matilde, che lascia a lontani cugini, rintracciati dopo le opportune indagini, un’eredità cospicua.

Quanto a quell’energia che ha colpito gli esperti di Coutot-Roehrig entrando nell’appartamento di Torino e nella casetta del bosco durante le operazioni di valutazione del patrimonio, quella sensazione di rassicurante serenità, ancora oggi non ha una vera spiegazione.

Qualcosa di Matilde è rimasta tra gli oggetti belli, le fotografie dell’amato gatto e gli arredi di classe, a riempire l’assenza di un’amabile signora. In fondo, un buon genealogista, non si limita soltanto a consegnare patrimoni ereditari agli eredi, ma deve anche valorizzare e affidare la memoria di colui che quell’eredità l’ha costruita giorno per giorno.