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La canzone di Rodolfo: una storia di amicizia

Era ancora giovane il signor Rodolfo, aveva da poco compiuto i 65 anni, ma sembrava portare sulle spalle ricurve il peso di due vite, sebbene paradossalmente non ne aveva vissuta intensamente nemmeno una.

Cresciuto all’ombra severa di una madre soffocante, Rodolfo passò i primi 30 anni chiuso in un nido irto di spine, totalmente ignaro di quello che succedeva nel mondo; solo alla scomparsa del suo unico punto di riferimento iniziò ad affacciarsi timidamente alla vita, e incontrò lei, Giselle.

Venne letteralmente travolto dalla sua fame di vita, dai suoi occhi verdi che si mangiavano le cose, dalla sua risata che metteva scompiglio e da quelle mani affusolate, piene di anelli, che cercavano le sue.

Un amour fou, per Rodolfo, forse solo un’avventura estiva, per Giselle, che quando lui partì sul treno  per Bordeaux, con quel buffo berretto calato sulla fronte, lo salutò dicendo: adieu.

Non la dimenticò mai, nemmeno quando iniziò a viaggiare per il mondo alla scoperta di quella vita che non riuscì mai, fino in fondo, a comprendere, e nemmeno quando cercò in altre donne le sue amabili carezze.

Giselle gli aveva lasciato un pozzo di ricordi in cui affogare il cuore, insieme a un disco che ascoltò fino allo sfinimento.

Quel tono scanzonato di Fernandel e le parole taglienti di Je me mens, diventarono un abito che Rodolfo indossò fino alla sua morte, perché anche lui, che in maniera scanzonata girava il mondo, alla fine non faceva che mentire a sé stesso, con l’allegria di chi nascondeva un’anima profondamente ferita.

Rientrò definitivamente in Italia, in quella casa all’ultimo piano, divenne sempre più scontroso, introverso, deluso da quel debito di felicità che la vita aveva nei suoi confronti, e iniziò a scrivere di lei, di Giselle, per tenerne vivo il ricordo ed evitare che sbiadisse in quella solitudine.

Michele arrivò alla fine di un’estate interminabile.

Studiava al Politecnico, era originario di Palermo e aveva risposto all’annuncio del pied-à-terre vicino all’Università, quello che Rodolfo aveva avuto in eredità dalla madre.

Gli era piaciuto subito, amava quel fare gentile e poco invadente, era puntuale con le mensilità e di tanto in tanto gli portava una risma di carta per la stampante o una confezione di caffè appena macinato.

Visite brevi, che diventarono appuntamenti fissi e, infine, chiacchierate tra amici: a vederli insieme, in inverno seduti davanti alla grande stufa a legna, e in estate all’ombra del glicine del terrazzo, sarebbero sembrati padre e figlio.

Ma dire chi fosse l’uno e chi l’altro, talvolta era impossibile.

Quel pomeriggio di febbraio furono i vicini del piano di sotto a dire a Michele che Rodolfo era stato portato in ospedale e che, se voleva vederlo, doveva fare presto, perché era sembrato a tutti molto grave.

Michele non fece in tempo, quando arrivò affannato con le gambe che tremavano, una giovane infermiera gli disse solo “Mi dispiace, non ha superato la crisi”.

Rodolfo se ne andò così, da solo, con quel motivo di Fernandel nella testa, gli occhi di Giselle nel cuore, il sole di quell’estate straordinaria sulla pelle.

Coutot-Roehrig individuò i suoi eredi, che nulla sapevano del lontano cugino, ma successe anche un fatto inconsueto: Michele, desideroso di acquistare l’appartamento dove aveva vissuto da giovane studente, contattò gli esperti che avevano curato la successione del signor Rodolfo, e oggi, quel pied-à-terre, è diventato la sua casa.

I tesori, qualche volta, non sono fatti di oggetti preziosi o proprietà prestigiose, ma hanno il sapore dell’amicizia e della gratitudine, e proprio per questo sono ancora più rari.

La storia di Cecilia e il suo violino

I violini possono prestarsi a una folla di sfumature in apparenza inconciliabili. Essi hanno la forza, la leggerezza, la grazia, l’accento triste e gioioso, il sogno e la passione (…). Il violino è la vera voce femminile dell’orchestra, voce passionale e casta allo stesso tempo, straziante e dolce, che piange e grida e si lamenta, o canta e prega e sogna, o esplode in accenti di gioia, come nessuno altro potrebbe fare.
(Hector Berlioz)

I primi giochi di Cecilia furono dei pennelli e una tavolozza di tempere.

Fausto, il padre, cullò per molto tempo il desiderio di trasmetterle la sua arte di stimato pittore, e non demorse nemmeno quando scoprì che la giovane figlia, nelle ore dedicate al cavalletto, fuggiva di soppiatto sul balcone, per ascoltare la vicina di casa suonare il pianoforte.

Si arrese solo quando, dopo anni, la sentì suonare nella piccola orchestra scolastica e capì che Cecilia era una vera artista, come lui, ma che aveva scelto un’altra forma di espressione.

Il primo violino fu un regalo del nonno materno, proveniva dai mastri liutai di Cremona ed era di seconda mano: ma Cecilia, ogni volta che apriva la custodia e sentiva quel profumo di cera e velluto un po’ consumato, si sentiva la bambina più felice del mondo.

Sinfonie, sonate ed esercizi ripetuti all’infinito diventarono per lei un mondo irresistibile dove rifugiarsi ogni giorno: non si può certo dire che Cecilia fosse una bambina prodigio, ma sicuramente crebbe virtuosa e appassionata, fino a diventare una musicista professionista.

Dedicò la sua vita all’orchestra in cui suonava, senza mai sposarsi, e immolandosi totalmente al suo primo e unico amore: il violino.

Cecilia si spense in età avanzata, tra i suoi spartiti e i quadri di suo padre che la ritraevano, ancora bambina, alle prese con le sue prime esibizioni: lo sguardo enigmatico, il volto rilassato e quell’espressione tra il divertito e il pensieroso.

Si dice che mentre la Gioconda posava nello studio di Leonardo, per tutto il tempo vi fosse musica per archi e che il suo celebre sorriso fosse, alla fine, un riflesso del suono di quelle melodie.

Forse Fausto riuscì a cogliere l’estasi artistica della figlia, o molto più semplicemente cercò, a suo modo, di esprimerne il talento, seppure ancora acerbo.

Gli eredi di Cecilia, rintracciati da Coutot-Roehrig, ricordano di quell’uomo gli amabili tratti e il carattere gioviale, ma è della violinista che serberanno per sempre quell’immagine elegante e armoniosa.

 

Tutti i bambini hanno il diritto di giocare

Coutot-Roehrig scende in campo per aiutare i bambini affetti da autismo con sindrome di asperger sostenendo il progetto “Tutti insieme in campo” ideato dall’Associazione We Play Football Asd.

Al via Sabato 4 giugno al Campo Sportivo di San Desiderio (a partire dalle ore 9.00), il torneo di calcio dilettantistico amatoriale per adulti a favore del progetto “Tutti insieme in campo”, ideato e realizzato dall’Associazione We Play Football Asd, in collaborazione con la Fondazione ETS Philos Impresa Accademia Pedagogica Sociale e sostenuto da Coutot-Roehrig azienda leader europeo nella ricerca di eredi.

Coutot-Roehrig, scende di nuovo in campo per sostenere We Play Football Asd che, in collaborazione con la Fondazione ETS Philos Impresa Accademia Pedagogica Sociale, si occupa di bambini autistici con sindrome di asperger.  Coutot-Roehrig, in qualità di supporter del torneo di calcio benefico, è tra i donatori del progetto “Tutti insieme in campo”. A firma di Carla Botta e dell’ex calciatore professionista del Genoa Simone Spinelli, il progetto è realizzato dall’Associazione We Play Football Asd, (di cui i due sono fondatori) che si propone di avvicinare i bambini affetti da autismo al mondo del calcio attraverso un approccio ludico formativo.

“E’ nell’etica del nostro lavoro apportare un beneficio agli altri dichiara Nadia Spatafora direttrice di Coutot-Roehrig Italia per questo anche quest’anno abbiamo accolto con entusiasmo l’iniziativa dell’associazione “We Play Football” insieme alla squadra di Notai Old Seal SCF, lieti di sostenere il progetto “Tutti insieme in campo”.

Ci piaceva l’idea di lasciare in eredità ai bambini che coltivano la passione del calcio il ricordo di un momento per loro emozionante come giocare una bella partita di calcio. Pensiamo che se non tutte le persone hanno diritto ad un’eredità, tutti i bambini hanno il diritto di giocare.”

 

 

 

 

 

Diana la fotografa di Venezia

«Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere».

Robert Doisneau

Zio Mario la faceva sedere distante, in modo che non lo disturbasse nella fase più delicata del suo lavoro, quando il vetro iniziava a prendere forma e occorreva essere veloci, forgiare senza esitazione.

Diana osservava in silenzio, con pazienza, sapendo che subito dopo sarebbe stata premiata con una piccola murrina colorata.

Forse la passione di guardare il mondo attraverso una lente nacque proprio in quei pomeriggi a Murano, nell’antica bottega dello zio, dove avvenivano due magie: quella della creazione di piccoli capolavori, e quella di osservare il cielo, i canali, le gondole che li attraversavano scivolando leggere e i volti delle persone che camminavano nelle calli incassate tra i palazzi, provando una rassicurante gentilezza.

La scoperta della prima macchina fotografica fu per Diana come arrivare in una terra inesplorata, con l’entusiasmo di avanzare coraggiosamente in sentieri non ancora tracciati o percorsi da pochi e fortunati eletti.

Non le bastarono più le murrine dello zio Mario: il mondo vero e gentile che desiderava osservare, poteva essere catturato e mostrato a tutti, quale prova inconfutabile che davvero esisteva.

Iniziò a frequentare lo studio del signor Alvise, un caro amico del padre, che le spiegò come la rifrazione della luce nelle pozzanghere poteva disegnare il volo dei piccioni con estrema grazia, o come il sorriso estasiato dei turisti in Piazza San Marco potesse illuminare la più buia delle giornate.

A Diana piaceva scovare le emozioni dove sembrava non ve ne fossero e il suo sguardo su Venezia e sulle persone aveva il sapore di un sogno magnifico, di quelli che si portano addosso anche da svegli, perché fanno sentire bene.

L’allieva superò il maestro, sviluppando uno stile originale, innovativo ma estremamente emozionale; Diana, figlia unica e mai sposata, passò tutta la sua vita a catturare immagini del suo mondo, tesa a coglierne la bellezza, e con la ferma convinzione che in fondo in fondo bastava guardare con il giusto punto di vista.

Alla sua dipartita lasciò un patrimonio straordinario: oltre alle sue foto, gli esperti di Coutot-Roehrig consegnarono a una lontana cugina americana numerosi libri, macchine fotografiche professionali e d’epoca, filtri, obiettivi, cineprese, lampade e una camera oscura dove ancora alcuni rullini, in attesa di essere sviluppati, conservavano quella tenerezza che Diana rincorse per tutta un’esistenza.

La collezione di vinili: l’eredità di Sara

Alba, mezzodì, pomeriggio e tramonto.

Siamo partiti così, a misurare il tempo, osservando il sole.

Poi siamo passati ai cicli della Natura, estate, autunno, inverno e primavera.

Il tempo è un concetto astratto che da sempre affascina l’uomo: analizzato, sezionato, calcolato, misurato, ma sempre libero.

Tra le forme d’arte più popolari la musica rappresenta quella più antica e, prima ancora che l’uomo facesse la sua comparsa sulla Terra, aveva già il suo spazio nell’universo: cinguettio degli uccelli, versi di animali selvatici, fischio del vento, rumore delle onde sugli scogli, ticchettio delle gocce d’acqua sulle foglie.

Chissà se il primo uomo ha mai provato a battere le mani o i piedi sulla terra, per accompagnare quei suoni: forse il ritmo è nato così.

E da lì a una sequenza armonica di note il salto è infinitesimale, comparato alla storia del mondo, ma brevissimo se rapportato alla presenza dell’uomo su questo pianeta.

La straordinaria impresa di catturare letteralmente i suoni e le voci nel primo fonografo, deve averci dato l’impressione, in un qualche modo, di poter possedere il tempo, e forse ad affascinare così tanto Sara può essere stata proprio la sensazione di avere tra i suoi vinili un tesoro sempre a disposizione.

Primogenita di una famiglia benestante di Torino, Sara cresce accumulando tra i suoi ricordi più belli, quelli delle domeniche in cui il padre spolvera il giradischi meticolosamente, estrae dalla carta un poco sciupata il vinile della Madama Butterfly di Puccini o della Traviata di Verdi, e appoggia quella puntina miracolosa centrando perfettamente il solco, sorridendo ogni volta al suo rumore sordo e al leggero sibilo prima che parta il primo pezzo.

C’era una sorta di magia in quel rito, che Sara cercherà di ripetere per tutta la vita, e per lei non esisterà musica più bella di quella, anche se crescendo la sua collezione personale di dischi diventa interessante: inizia a scoprire i cantautori italiani, gli artisti che diventeranno i grandi classici della musica italiana, i musicisti stranieri e le band che hanno segnato un’epoca.

Non si era fermata a uno stile in particolare, ma non poteva rinunciare a quel gesto: spolverare il giradischi, sistemare il vinile, abbassare la puntina, e sedersi in poltrona sorridendo.

Sara si sposa con Giulio, inizia una nuova vita nell’attico con la grande terrazza fiorita che guarda dritta la Mole Antonelliana; ed è proprio da quella meraviglia di bosco sospeso che in certe sere d’estate e nei pomeriggi domenicali, arrivano le note di Puccini, Verdi, De André, il Quartetto Cetra, i Beatles e Luigi Tenco.

Giulio muore piuttosto giovane, in un tragico incidente, e forse Sara senza i suoi dischi non sarebbe riuscita ad affrontare quella lunga e dolorosa assenza, non avendo avuto nemmeno il tempo di progettare un figlio.

L’ha trovata la domestica, un lunedì mattina di inizio settembre, seduta sulla terrazza ancora fiorita, l’immancabile plaid sulle gambe, un sorriso di pace sul volto, e le note del coro muto della Butterfly.

Se n’era andata la signora della musica, si bisbigliò per un certo periodo nei negozi e sui balconi vicini, e per molto tempo si sentì la mancanza delle note che faceva risuonare tra le mura dei vecchi palazzi.

Gli esperti di Coutot-Roehrig, rintracciati i lontani cugini che vivevano in Svizzera, al momento dell’inventario dei beni di Sara non sono rimasti indifferenti alla collezione dei vinili, tra i quali anche quelli del padre.

ita e il cui sapore, irresistibile e terribilmente romantico, è l’espressione di un’esperienza musicale a molti sconosciuta.

“La vita sceglie la musica, noi scegliamo come ballarla”

John Galsworthy

L’inossidabile fascino del fumetto

L’immediatezza del disegno, semplice o ricco di dettagli, bianco e nero o a colori, e la magia delle storie raccontate e dei suoi personaggi, si legano indissolubilmente in una passione che spesso ha il sapore dell’infanzia, il batticuore dell’attesa, e il profumo della carta stampata.

Il fumetto accompagna i bambini e li fa rimanere tali, anche quando crescono e diventano uomini.

La realtà è che in quelle strisce che sembrano prendere vita, pur nella loro innegabile bidimensionalità, si scavalcano idiomi, si riducono distanze, si colmano solitudini e, talvolta, si acquietano paure.

Negli anni 60 si cresceva a fette di pane imburrato e avventure sui fumetti, con personaggi destinati a diventare dei beniamini, come Rin Tin Tin, Topolino, il signor Bonaventura, Sor Pampurio, Felix, Tex Willer e Tiramolla.

Guido era cresciuto così, diviso tra scuola, compiti e pomeriggi seduto sui gradini di casa, con un fumetto sulle ginocchia sbucciate, regalo del padre per essersi comportato bene: gli occhi sgranati sui tratti veloci, le dita a sfogliare con cura ogni pagina cento mille volte e la fantasia che galoppava senza confini.

Da piccolo lettore appassionato, Guido divenne, con gli anni, un vero e proprio collezionista, continuando a onorare quell’appuntamento settimanale a cui suo padre aveva dato il via, e realizzando una raccolta che, sebbene non preziosa, lo seguì nella sua casa di giovane sposo.

Brillante e impegnato imprenditore, Guido trovò sempre il tempo per sfogliare almeno uno dei suoi fumetti, tornando ogni volta a essere quel bambino con le ginocchia sbucciate, dalla risata spensierata e l’animo leggero.

Un giorno d’inverno, improvvisamente e inaspettatamente, la moglie Luigia lo lasciò.

Nemmeno il tempo di comprendere il dolore di quella perdita, e Guido la raggiunse.

Ebbero una vita intensa, senza figli, fatta di complicità e di un delicato equilibrio: quando Luigia si dedicava alle sue rigogliose piante, Guido si chiudeva nello studio e apriva un fumetto.

Gli esperti di Coutot-Roehrig si resero immediatamente conto di trovarsi in un piccolo mondo antico, che silenziosamente parlava di quei pomeriggi con la testa tra le nuvole, di occhi sgranati e di fette imburrate.

Perché spesso il valore di un’eredità sta nella personalità di chi se n’è andato: e Guido, in quella collezione apparentemente così infantile, ha lasciato di sé lo spessore di un uomo che sapeva tornare bambino, anche da anziano.

Angela

Angela e la sua collezione di vini

«Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro, un buon amico»

Molière

Immaginate di compiere un viaggio, attraverso paesaggi diversi, fatti di natura, di persone, di tradizioni e di stagioni, seguendo una geografia olfattiva.

I profumi di un vino possono fare questo e altro.

Lo sapeva bene la signora Angela, che proprio nel vino aveva riposto le attenzioni di una vita, realizzando una collezione fatta di etichette pregevoli e di annate particolari: una cantina interessante, non eccezionale, ma sicuramente espressione di una passione verace e di una cultura non indifferente.

Sposata con un signore della Torino bene, la signora Angela avrebbe potuto collezionare abiti di alta sartoria o gioielli raffinati, ma decise che il valore della convivialità fosse di gran lunga superiore a quello intrinseco di un oggetto qualsiasi.

Cominciò ad appassionarsi ai vini della zona piemontese, imparando a riconoscerne i sentori, i vitigni, le caratteristiche che mutavano in base alle annate, poi i suoi interessi si estesero, grazie alla tipica curiosità che anima le menti brillanti, al mondo, desiderosa di scoprirne le meraviglie.

La piccola vetrina dove tenere alcune etichette da degustare e la cantina con la giusta umidità dove collezionare i piccoli capolavori provenienti da più parti d’Italia, furono il passo successivo: luoghi dove entrare in punta di piedi, quasi per non disturbare il sonno di alcuni vini, dove accarezzare con rispetto le bottiglie più pregiate e infine dove attingere per condividere quel mistero così antico con gli amici più cari.

Rimasta sola dopo la dipartita di Giuseppe, suo marito, la signora Angela ha continuato a viaggiare nella sua cantina ricordando i bei tempi che furono, le serate in compagnia e le feste con le tavole imbandite, fino a quando anche per lei, è giunto il momento di andare.

Agli eredi, i genealogisti di Coutot-Roehrig, hanno consegnato la chiave della cantina con i suoi vini e i suoi ricordi: piccolo ma pulsante luogo del cuore della signora Angela.

La vita spesso apre delle parentesi per poi chiudere dei cerchi: in questo caso uno dei nipoti della signora non solo possedeva una cascina, ma di mestiere faceva il viticoltore.

Il suo sguardo, alla vista di quella cantina, deve essersi illuminato e a noi piace pensare che la signora Angela riposi serena, tranquilla per le sorti della sua collezione.

Dietro le quinte della ricerca genealogica - Seconda parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Seconda parte

Dietro le quinte della ricerca genealogica – Seconda parte

Caterina.

Partire da un nome e da un paio di date per ricostruire le origini di una persona potrebbe risultare molto complesso, ma non per un genealogista, avvezzo a percorrere strade spesso nascoste arrivando tracciare nuovi cammini, saltellando tra le regioni ma, soprattutto, giocando con la linea del tempo.

 La storia di Caterina, vissuta a Torino, si era fermata per un attimo a Pietra Ligure, paese di origine della madre, che però, a sua volta, aveva una storia interessante alle spalle.

 Ricostruendo minuziosamente la linea materna, si scopre così che la nonna materna di Caterina era una delle poche sopravvissute della sua famiglia, famiglia il cui padre era giunto sulle coste del Tirreno partendo dalla campagna vicentina. A questo punto sorge spontanea la domanda: perché, in un’epoca in cui le famiglie erano piuttosto numerose, qui si parla di “sopravvissuta”? E poi, perché il Veneto?

 Un bravo genealogista, oltre a ricostruire i legami di parentela, non deve perdere di vista il contesto storico della ricerca sulla quale sta lavorando, deve saper collocare i rami genealogici nel terreno dei grandi eventi, quelli in grado di modificare un’intera generazione, per intenderci.

 E con Caterina, o meglio con la famiglia della nonna materna, ci si colloca già nel pieno dell’800, un secolo che, tra le guerre e la nascente industrializzazione si concluse con la Grande Guerra combinata alla pandemia di spagnola, la Grande Influenza che tra il 1918 e il 1920 uccise tra i 50 e 100 milioni di persone in pochi mesi.

 Questo spiega, probabilmente, la migrazione di quell’avo dalla campagna veneta alle coste liguri, e ai loro porti, alla ricerca di una condizione di vita migliore. Da un lato il lavoro, dall’altro la guerra. Se la Guerra si faceva al fronte, la spagnola non ha certo fatto distinzione tra luoghi, generazioni o sesso … e tra le vittime si contano anche alcuni membri della famiglia della nonna materna di Caterina. Per questa ragione, qualche paragrafo più in alto, abbiamo parlato di “sopravvivere”.  Di un’intera famiglia che vedeva 12 nascite, solo 2 sono arrivate all’età adulta: una di queste era proprio la nonna di Caterina, l’altra era la nonna dei suoi legittimi eredi.

 Questi macro-eventi della storia hanno avuto forti conseguenze nelle famiglie di tutto il continente (ma non solo) e sono oggi ancora riconoscibili negli alberi genealogici: con gli uomini che perivano sul fronte e le donne che non sopravvivevano alla pandemia, anche alcuni bambini non diventavano mai grandi.

 Difficilmente, ma non di rado, è necessario risalire al sesto grado di parentela per trovare degli eredi viventi come nel caso di Caterina, ristabilendo legami andati perduti, sepolti e dimenticati, soffiando via la polvere del tempo, silenziando gli echi delle guerre, ma, soprattutto, riportando alla luce uno spaccato di un’epoca per tanti letteralmente sconosciuta.

 Questo è il lavoro del genealogista, abile funambolo sul vuoto spaventoso del tempo e guardiano discreto dei segreti di intere generazioni.

Coutot-Roehrig a Studio Aperto Mag

il 23 febbraio é andato in onda su Studio Aperto Mag alle ore 19.00 un servizio su di noi.

“Da oltre 20 anni vanno a caccia di eredi, persone che non sapevano di avere un parente ricco. Grazie a loro possono entrare in possesso di un’eredità alla quale non sospettavano nemmeno di avere diritto.”

Ringraziamo il giornalista Alberto Pastanella, il regista Luca Stegani e tutta la redazione di Studio Aperto per aver dedicato un servizio alla nostra professione, mirato a far comprendere in che cosa consista davvero il nostro lavoro giornaliero e quanto questo, spesso, si mescoli alla storia. Ricostruire un albero genealogico in maniera meticolosa ci porta a conoscere a fondo le radici dei nostri eredi, ma ci fa rivivere anche i contesti storici del passato che inevitabilmente hanno influenzato le loro vite.

 

Grazie per aver trasmesso, attraverso questo servizio, la passione che mettiamo ogni giorno nel restituire i beni preziosi (anche sentimentalmente preziosi) di chi ci ha lasciati, ai loro legittimi famigliari.

 

Clicca sull’immagine per il servizio completo!

20 anni di Genova

2001 – 2021 Vent’anni di Genova

Genova, 16 dicembre 2021 – Chiostro dei Canonici di San Lorenzo

Ci hanno definito gli Indiana Jones degli alberi genealogici, gli esperti investigatori di archivi, i perfetti James Bond dei lasciti: a noi piace definirci semplicemente pionieri, coloro che per primi hanno tracciato una strada dove prima non c’era nulla, ricucito strappi generazionali apparentemente irrisolvibili, e ricongiunto famiglie divise dagli scherzi del destino. Sono passati 20 anni dal nostro arrivo a Genova, prima sede della nostra storia in Italia, artefici di un mestiere che in qui non esisteva, fautori di un legame con la Francia e successivamente
con il mondo intero che ha annullato o quasi le distanze geografiche, e orgogliosamente attori in prima linea con una città considerata oggi il simbolo di un nuovo risorgimento italiano.

Abbiamo deciso, così, di festeggiare questa ricorrenza insieme ai nostri amici e a tutti i professionisti che in questi anni ci hanno seguiti e che ringraziamo con tutto il cuore.

Speriamo sia stata una piacevole serata indelebile nei vostri cuori così come nei nostri!

Au revoir!